sabato, Aprile 19, 2025
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    AI e imprese: tecnologia avanti, competenze indietro

    Le piccole e medie imprese italiane guardano all’intelligenza artificiale con interesse crescente, ma tra intenzioni e realtà resta un divario profondo. Competenze limitate, budget ridotti e una cultura aziendale ancora troppo analogica frenano l’adozione delle nuove tecnologie. Ne abbiamo parlato con Carmelo Mariano, partner di Kpmg, AI practice leader, che in questa intervista fa il punto su sfide e opportunità per le aziende.

    Continua a leggere per scoprire come le Pmi possono superare il gap e trasformare l’intelligenza artificiale in un motore di crescita concreta!

    Carmelo Mariano
    Carmelo Mariano
    L’AI spinge la domanda di competenze, ma le Pmi italiane faticano a colmare il gap. Qual è la situazione?

    «Le aziende medie italiane non dispongono degli stessi budget delle grandi corporations. Per questo possono incontrare difficoltà nell’investire in progetti a medio e lungo termine, soprattutto quando la tendenza diffusa è di preferire strumenti che garantiscono un ritorno immediato. Il tema delle competenze è senz’altro centrale. Per colmare tale gap le aziende devono sforzarsi di investire in formazione e promuovere un mindset digitale, oltre a fronteggiare le limitazioni economiche tipiche delle piccole imprese rispetto alle maggiori disponibilità finanziarie di quelle grandi».

    In che modo questa carenza sta rallentando l’adozione dell’intelligenza artificiale nelle imprese, soprattutto in termini di innovazione?

    «L’adozione dell’AI nelle Pmi è ostacolata da diversi fattori. Come già detto, spesso la leadership aziendale manifesta scarso interesse nell’investire in tecnologie senza ritorni immediati, privilegiando una visione a breve termine. Un ulteriore impedimento è rappresentato dalla tradizionale cultura analogica nelle imprese, che rende difficile immaginare e implementare casi d’uso efficaci per l’intelligenza artificiale. Le aziende vedono nell’AI una soluzione per incrementare efficienza e produttività. Ma l’intelligenza artificiale, per generare un reale vantaggio competitivo, deve essere utilizzata per implementare processi di innovazione. Si tratta di un vero e proprio cambiamento culturale».

    Solo una parte delle aziende è consapevole dei rischi legati all’AI, come la mancanza di trasparenza nei modelli. Quanto le Pmi sono preparate su questi temi? 

    «L’AI Act ha introdotto norme precise per gestire i rischi connessi all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. In Europa esistono attività per le quali l’uso dell’AI è assolutamente vietato, come il social scoring per classificare i cittadini o l’uso di algoritmi che potrebbero discriminare l’accesso a determinati servizi. Altre applicazioni, invece, sono considerate a rischio elevato e richiedono l’adozione di misure di mitigazione. Le aziende devono quindi implementare meccanismi che garantiscano trasparenza, evitino discriminazioni o bias e promuovano un utilizzo responsabile dell’AI, supportato da un solido modello di governance. Le Pmi italiane si stanno già muovendo in questo senso».

    L’adozione di modelli AI specifici per settore potrebbe risolvere parte di queste problematiche. Ha senso puntare ancora su soluzioni generiche?

    «Il valore distintivo risiede nell’uso strategico dei dati unici dell’azienda. Le imprese devono integrare nei loro sistemi quegli elementi che rappresentano il proprio know how, personalizzando gli algoritmi in base ai dati proprietari o a quelli esterni che, altrimenti, rimarrebbero inutilizzati. In questo modo, è possibile addestrare gli algoritmi per renderli specifici alle esigenze del business e implementare processi di feedback continui che ne migliorino l’efficacia nel tempo. L’adozione di modelli ad hoc è senz’altro preferibile a soluzioni generiche».

    Formazione interna, tramite upskilling e reskilling, o partnership esterne con le università: qual è la strada giusta per superare le carenze sul piano delle competenze?

    «Al momento la domanda principale riguarda le Stem, in particolare quelle tecniche che, comunque, da sole non bastano. È altrettanto importante possedere competenze di business e di change management. Inoltre, diventa cruciale saper gestire aspetti legati alla governance e alla sicurezza informatica. Insomma, si deve superare l’idea che si possa fare tutto all’interno, pur essendone in grado, perché la chiave per crescere rapidamente e in modo efficace sta nell’aprirsi a collaborazioni esterne. Adottare un approccio di open innovation, coinvolgendo partner come startup, centri di ricerca o consulenti specializzati, permette di accelerare il processo di apprendimento e sperimentazione. Così pure le Pmi sono nelle condizioni di intraprendere un percorso di innovazione senza dover sostenere tutti i costi e le competenze in house».

    L’approccio open source è davvero un’opportunità per le Pmi? È realistico pensare che un’azienda locale possa contribuire alle community senza perdere competitività?

    «L’AI deve essere considerata come un mezzo per amplificare le capacità delle persone, consentendo loro di svolgere le attività in modo più innovativo e creando valore sia per l’azienda sia per i dipendenti e gli stakeholder. La chiave è integrare l’intelligenza artificiale in modo strategico, trasformandola in un motore di crescita e di valore condiviso. Un approccio open source non renderà le imprese meno performanti, al contrario le aiuterà ad aumentare il proprio vantaggio competitivo».

    Come vede il futuro delle Pmi in relazione all’adozione dell’AI? Cosa manca per accelerare il processo di digitalizzazione?

    «Come Kpmg accompagniamo le imprese nella loro trasformazione in aziende AI-driven, sostenendole a partire dalla definizione di una strategia di digitalizzazione, con l’intelligenza artificiale orientata a creare valore concreto. Supportiamo l’implementazione operativa, adattando processi e tecnologie per l’integrazione dell’AI, e valorizziamo i dati aziendali trasformandoli in asset strategici. Infine, favoriamo la formazione e lo sviluppo culturale per creare un ambiente innovativo tra i dipendenti. Per accelerare i processi di digitalizzazione occorre, prima di tutto, un cambio di mentalità».

    di Anna Colazzo

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